venerdì 14 novembre 2014

MA TE', A SIT BENITO?

Era il febbraio del 1963, ormai il lungo e avventuroso percorso universitario era quasi alla volata finale. Prima di arrivare alla discussione della TESI a Chimica Industriale di Bologna c'era una serie di prove sia di laboratorio che "orali" e poi il rush finale con proclamazione, consegna del papiro ufficiale in bella pergamena, foto e affettuosità varie di amici parenti e conoscenti. Fu durante questi avvenimenti finali che una bella e prestante ragazza dall'aspetto e dalla voce squillante in perfetto romagnolo di Ravenna esplose con quel  MA TE' A SIT BENITO (per gli italofoni "ma tu sei Benito")?
 
E infatti ero proprio Benito, ci eravamo frequentati nel finale della quarta elementare quando dal Nord finito come poteva solo finire dal Nord repubblichino eravamo tornati a Ravenna da cui eravamo partiti due anni prima per seguire l'amato DUCE fino alla fine. E in fondo andò bene, l'unico a sopravvivere fu mio padre gli altri (qualche decina) furono fermati nel trevigiano. Ma questa è una altra storia. Fu un trimestre finale insolito, anche i banchi erano informali una meravigliosa giovane maestra raccoglieva attorno se dei bambini rintronati, sbandati ma abbastanza scafati abitando in quella che allora era la estrema periferia di Ravenna confinante con i campi. Alla fine fummo tutti promossi, solo che io poi andai in collegio a Villa San Martino di Lugo, poi le medie a Imola in Seminario, il Liceo scientifico a Trieste con la maturità al minimo (a parte storia) e, finalmente l'Università cominciata a Trieste, facoltà di Scienze naturali fisiche chimiche etc con biennio congiunto.
 
La premessa era necessaria perché poi non tutto camminò in modo lineare. Il biennio fu splendido, eravamo una ventina, docenti giovanissimi, laboratorio dal lunedì al venerdì 14.30-19.30 con il buon Ciana burbero ed efficace e il tecnico Coglievina che a fine turno controllava che avessimo spazzato il pavimento, che i reagenti fossero al loro posto e, di quando in quando, suggeriva che il bianco camice pieno di macchie era il caso di lavarlo. Lingua ufficiale? il dialetto triestino così diretto ed efficace che così  finalmente lo imparai (più difficoltà avevano i tre colleghi dei paesi attorno la cui lingua madre ero lo sloveno).
 
Anche i risultati furono decenti, il biennio non faceva media (a Trieste) ai fini del voto di laurea finale e i miei risultati con media 25 (e uno stranissimo 30 in matematica 1) mi ponevano al quarto posto (da sopra). Un solo neo, FISICA 1. C'era lo scritto e lo facevamo tutti assieme, chimici fisici biologi e via elencando. I chimici erano ammessi all'orale con un voto di 8 su 30. E me lo ricordo bene perché si doveva calcolare la velocità di fuga dall'atmosfera terrestre (era il 1957!)  ed evidentemente me l'ero cavata bene visto che mi avevano dato 23 su 30. Poi arrivò l'orale e fu un disastro partendo dal secondo principio della dinamica che io scrissi automaticamente  f = ma. Ma non andava bene e alla fine di un'ora d'esame me ne andai con un ignominioso 12 su 30 con il prof convinto che avessi copiato lo scritto e io rintronato perché quell'esame  era il risultato di uno sgobbo pesantissimo di sei mesi con il pesantissimo Rostagni quasi a memoria.

E forse fu proprio quel "quasi a memoria" il guaio. Un guaio che di solito nasce dalle superiori. Matematica e fisica sono una cattedra unica e inevitabilmente il docente ama o è in sintonia veramente con una sola delle due materie e di solito è la matematica, non fosse altro che a fine corso, specie allora, c'è sempre la prova scritta di matematica. Qualcosa di simile nel corso di scienze con la Chimica nelle mani di un docente di scienze naturali abituato alla filastrocca di famiglie, specie e che della chimica inevitabilmente ti racconta una lunga fila di nomi senza legami, se non di nomenclatura, fra loro.

E fu così che cominciò qualcosa di irreversibile, i nuovi tentativi finirono male e pensai che era il caso di cambiare Facoltà e luogo e finii a Chimica Industriale Bologna (vicino alla famiglia della mia giovanissima zia (ormai sposata e senza figli) che accettò di ospitarmi a patto di un va e vieni tra Bologna e Castelbolognese. Ma l'incubo continuò anche a Bologna con l'ossessione che se non chiudevo gli esami del biennio non potevo dare gli esami del triennio. Così per superare i controlli materni cominciai a scrivere sul LIBRETTO esami mai dati con equilibrismi a base di scritture e successive cancellazioni. Così dei 33 esami totali ne risultavano fatti quasi 20 mentre in effetti non superavano i 14. Poi accadde l'imprevisto, mia madre incontra per caso a Trieste un mio compagno di corso che anche lui si era trasferito a Bologna ma ben diverso da me, facendo lo studente universitario come ancora usava: da GOLIARDO. Mia madre tutta contenta dice: ancora pochi esami ed è finita... E lui per fortuna disse la verità. Dico per fortuna perché fu l'occasione per ripartire a testa bassa (fra l'altro ancora qualche mese e avrei dovuto entrare in INTERNATO (Periodo nel quale si entra in tesi sperimentale, 8/10 ore di laboratorio al giorno. Il top del sogno per uno studente di chimica).

Riaffrontai i due esami di fisica 1 e 2 a Bologna, con il prof Peli che con molti sospiri mi regalò un 20 e un 21 poi fu una volata, i residui 17 esami furono sbrigati in 4 sessioni con risultati nettamente superiori come media rispetto ai precedenti, tanto da riportare il libretto complessivamente onorevole.

E il tutto mi è ritornato in mente per un fatto recente che correva sulla stampa, quello di una ragazza che aveva invitato tutti alla cerimonia di laurea senza che avesse completato il corso di studi e ci fosse già la tavola imbandita con i rituali festeggiamenti (roba da ricchi).

Poi ci fu la borsa di studio, il venire incluso nei gruppi di ricerca e tutta una altra serie di accadimenti che mi portarono, dopo 4 anni a cambiare area di lavoro pur sempre in ambito chimico. 

PS: molti anni dopo, insegnavo fisica in un corso serale per geometri, affrontavo appunto il secondo principio della dinamica e scrivevo il rituale  f = ma e mi fermai a guardare la formula... e si accese la lampadina quasi 20 anni dopo

NATURALMENTE CI VUOLE IL SEGNO DI VETTORE e capii quanta ragione avessero, non basta tener conto dell'intensità, ma bisogna tener conto della direzione e del verso. L'esempio è quello di un carrello fermo su una rotaia, se vuoi muoverlo bisogna spingere nel verso giusto.