giovedì 26 aprile 2018

Storia di un Chimico sub-normale 1.4 biennio

Per la prima volta entravo in una classe "normale", sembrerà strano ma ripensandoci le prime due classi elementari erano in un scuola classica di campagna, nell'andamento la maestra aveva autorità assoluta, i genitori erano riconoscenti e sapevano di agire nell' interesse dei propri figli. Spesso i genitori non erano abituati o capaci di scrivere in modo corretto e i rapporti con il mondo esterno erano quasi esclusivamente dettati da esigenze familiari o puramente commerciali. Per gli adulti  c'erano i locali adatti agli scambi sociali, l' osteria alla sera per gli amici e le partite a carte, la Parrocchia come punto d' incontro domenicale o il mercato per i polli o simili per arricchire "il portafoglio" in previsione di acquisti per le femmine e i bimbi piccoli.

Di solito le donne arrivate per matrimonio avevano la domenica mattina da dedicare alla famiglia originaria e in questo le biciclette erano fondamentali, anche per caricare il sellino porta piccolissimi e sempre che non fosse il loro turno per le preparazioni del pranzo domenicale e per il piatto serale (di solito lesso e contorno in piatti singoli a libera scelta  messi nella madia e disponibili mano uno arrivava, perché la domenica pomeriggio non c'erano obblighi di orario per nessuno/a).

Poi c'era stato il periodo di guerra a Bussolengo e lì mia madre aveva la gestione della mensa militare per il distaccamento dei militi ravennati trasferiti lì dopo il 25 luglio 1943 mentre gli impegni scolastici non esistevano se non per l'anno 45/46 e dopo ero in collegio fino alla fine della quinta. Poi la decisione per il Seminario e lì l'aula di lezione coincideva con il luogo di studio esclusivo senza contatti esterni. In fondo per me la "scuola" corrispondeva al luogo dove vivevo.

Arrivai presto il primo giorno e non ci volle molto per sapere quale fosse il luogo dedicato tanto che arrivai quasi per primo, traversai tutto l'ambiente e andò bene il primo banco a destra rispetto alla cattedra proprio sotto il finestrone laterali e il posto verso il corridoio interno così il mio piede destro e i suoi problemi di nascita venivano accontentati. Tutto ovviamente mi isolava, a Trieste allora (ma forse anche oggi dopo quasi 70 anni) la lingua parlata era il dialetto. Quel dialetto di origine veneta completamente atonale, senza cantilene che il vento avrebbe strapazzato  ma anche senza particolari idiotismi a parte il ricorrente "mona" qua e "mona" là.

Già, quel vocabolo mi colpiva e ancor più mi rendeva disturbato perché quando dopo qualche giorno cominciai a chiederne il significato ai meno indisponibili mi rispondevano sempre di chiederlo alla TITTI... Già, le ragazze... onestamente erano un genere per me sconosciuto, le mie cugine o avevano ormai almeno sei anni più di me o altrettanti meno di me. Chiederlo a mia madre non mi fidavo, anche lei era nuova a Trieste poi qualcosa mi rendeva prudente e la corrispondenza con la parte anatomica femminile di ugual nome scoprii poi che non c'entrava per niente. Chissà perché il corrispondente vocabolo romagnolo (pataca), anch' esso femminile, dovesse nei fatti significare imbecille, presuntuoso, stupido, contaballe e via dicendo. O forse nasce dai poveri maschietti e il loro timore-desiderio verso l' universo delle loro dominatrici-schiave.
Si arrivò comunque alle prime operazioni, come l' appello e la presentazione quindi di studenti e prof e fu qui che cominciò uno dei primi fraintendimenti, io ero Cremonini e il mio compagno di banco Pillinini, ma per il prof era il contrario, così un giorno che il Pillinini era assente il prof si arrabbiò perché io non mi alzavo o rispondevo al suo richiamo, fra i sogghigni dei compagni smaliziati e pronti a sottolineare i miei inghippi. Poi per fortuna arrivarono i giorni dei colloqui fra genitori e prof. e ci fu un incontro determinante fra il prof. Paoli, di lettere, e la Valda, mia madre, con il suo cappottino marroncino che messo al confronto con gli abbigliamenti disinvolti delle altre madri denunciava la sua, e mia, origine economica. Eppure fu mia madre a vincere il confronto raccontando le mie avventure fisiche e scolastiche a quell' onesto prof che voleva convincerla a spostarmi su altri tipi di scuole più adatti alle mie, modeste, doti e la miserabile situazione economica complessiva. Gli aggettivi sono miei ma rispecchiano e rispecchiavano la realtà.

Paoli era uno dei membri della componente ebraica della città di Trieste, un gruppo efficiente e intellettualmente capacissimo oltre che molto legato ai traffici economici con l' oriente d' Europa sia cristiano che islamico. Da sempre raccoglievano le necessità dell' Europa di lingua tedesca facendo da ponte efficiente ed economicamente molto capace, anche se gli esiti della guerra non li avevano favoriti e, soprattutto (ma lo capii anni dopo) era in atto una brutale concorrenza di Genova, assistita da importanti lobbie politiche. Fra l' altro la componente ebraica triestina era "nazionalista" in senso italico e aveva collaborato molto con il primo nazionalfascismo.

La cura del prof fu immediata, mi spiegò che c'era una "biblioteca civica" aperta a tutti e dove avrei trovato ampia accoglienza e mi diede un elenco di autori da cominciare a leggere (genere Palazzeschi e simili, suggerimenti del 1950!) e a lui dovevo rendere conto in brevi colloqui orali e poi mi mise sotto tutela di un suo studente di QUINTA che sarebbe venuto a casa mia per curare linguaggio e, soprattutto, scrittura. Il tutto senza costi per la mia famiglia. Il tutto accompagnato da suggerimenti per il corso di disegno e architettura, altro mio handicap, specie per i disegni dal vivo. Già non avevamo mai scoperto che io avevo una forte miopia da un solo occhio e mi mancava la tridimensionalità... Altri miei deficit si riveleranno molti anni dopo quando avrei dovuto utilizzare le mie riposte doti di maschio, ma allora ero già laureato...

E così cominciò la gara del biennio finito il quale la nostra sezione "E" doveva migrare nella succursale di San Nicolò in pieno centro, a due passi da via Parini, casa mia, e dalle "rive" con quel mare fascinoso.

Ne parleremo poi ...




mercoledì 18 aprile 2018

STORIA di un chimico sub-normale 1-3. Allora si fa sul serio!

Ormai ero convinto anch' io, anche se dopo che era stato scoperto il mio auto-licenziamento" dal Seminario di Imola mi ero chiuso nel mio atteggiamento di rifiuto anche verso una qualsiasi decisione di natura scolastica. Del resto avendo già superato la scuola media inferiore le alternative erano, scartato l' avvio al lavoro in prima battuta, fra i licei e gli Istituti Tecnici, ricordo che allora, 1950, non erano certo tempi di scuola media "unica" e, infatti, quando si trattò di mio fratello di quattro anni più giovane classe 1940, dopo la scuola elementare la soluzione era scontata: l' avviamento professionale perché poi ci sarebbe stato il LAVORO, appena possibile o trovabile, naturalmente con il mansionario minimo. Anzi, in molte parti d' Italia, nelle classi popolari molti erano gli scolari ripetenti e che finivano le elementari a 12 anni e quello era un limite tacito per la scolarizzazione obbligatoria. 

Non dimentichiamo che siamo nel 1950, io andavo alle "SUPERIORI" dopo la media inferiore, quella con il latino alla quale ero arrivato attraverso uno specifico esame dopo la  Va elementare, mentre per gli altri (e mio fratello era "altro")  c'era l' opzione di un corso triennale appunto "professionale" da cui si usciva come APPRENDISTA, categoria OPERAIA. Volendo non c'era nessun "obbligo" scolastico finite le elementari o, meglio, era previsto un obbligo scolastico fino al compimento dei 12 anni (spostato a 14 anni con la Costituzione del 1948) ma per i ceti "inferiori" e le zone rurali e simili fioccavano le bocciature e spesso era già molto se si fossero completate le 5 classi elementari.

Per il mondo di oggi sembra sentire parlare di qualcosa di inimmaginabile eppure per le generazioni come la mia era già molto il reale compimento della scuola dell' OBBLIGO, Naturalmente mi riferisco alle CLASSI INFERIORI... 

Ma torniamo al Benito pronto per affrontare il LICEO e quindi bisognava pensare al vestire, e qui vennero opportuni i vestiti dei cugini imolesi Livio e Gigì che avendo 4 anni in più erano già praticamente dei giovanotti fatti e finiti  e presto gli avrebbero comprato anche la moto un Gilera 150,  all' epoca il non plus ultra dell' avventurosità.

Il riferimento ai miei cugini imolesi suggerisce di soffermarmi un attimo su un aspetto molto specifico, quello cioè della organizzazione interna di una famiglia contadina non solo proprietaria diretta ma che valeva anche se riferita a quella a mezzadria (in questo caso il primo 50% del reddito spettava al proprietario, salvo quanto in qualche modo sottratto alla realtà da un mezzadro intelligentemente "onesto"). Prendo ad esempio l' ordinamento contadino vigente in casa CIARAVAL (il soprannome della tribù dei Geminiani discendenti da Fita e Iusfina), c'erano delle regole economiche molto precise: preso il reddito annuo complessivo, il primo 50 % era la quota "del padrone" e comprendeva nonno Geminiani, suo fratello Gianò  e i  figli maschi maggiorenne, l' altro 50% era suddiviso fra quanti partecipavano al lavoro e quindi di nuovo i primi 7 appena indicati, più i nipoti "maschi" con 18 anni compiuti e gli eventuali "garzoni", aggregati cioè alla famiglia proprietaria. Interessante questa categoria, di solito si trattava di ragazzi di oltre 10 anni provenienti dalle zone collinari che venivano affidati dai loro genitori ai contadini di pianura. In questo modo si garantiva loro un tenore di vita "decente" e le famiglie d'origine sopravvivevano meglio. 

E le "femmine"? Le femmine, cioè le mogli dei miei 5 zii, dovevano accudire la intera tribù sotto il governo di mia nonna Iusfina (Giuseppina Golinelli), con turni settimanali dal lunedì alla domenica e durante il turno dovevano provvedere alla preparazione dei pasti e servizi collegati, oltre ovviamente alla pulizia ordinaria dei locali comuni, tutte poi dovevano provvedere in autonomia assoluta a quanto necessario per la loro singola famiglia. A loro spettavano i ricavi del commercio extra, come prodotti dell' orto, dell' allevamento di pollame e simili (come i piccioni) e/o dei conigli, che venivano venduti al mercato di Imola e i ricavi venivano poi redistribuiti fra tutte le femmine in età superiore ai 18. C'erano poi dei compensi sempre per le "femmine" per lavori interni, come la cardatura della canapa, lavori di sartoria e laneria, il rifacimento dei materassi di crine e tutte quelle specificità non strettamente agricole che venivano discussi fra le singole femmine interessate. Naturalmente quando necessario DOVEVANO collaborare alla pari come nella raccolta delle frutta, la pulizia da erbe infestanti, la sarchiatura e simili.

Ma torniamo al Benito, pronto con la sua giacca e cravatta (quella con il nodo già pronto e sostenuta con un elastico da nascondere sotto il collo della camicia), le scarpe nuove e i pantaloni lunghi che così coprivano anche le origini del suo zoppicare. Il liceo Oberdan non era poi così lontano dalla via Parini, usciti dal portone c'era proprio di fronte l' inizio di via Antonio Caccia e poi in fondo Largo Barriera da attraversare e quindi affrontare la salitella su in alto sopra le due gallerie (nei ricordi quando soffiava la "bora", ed era giornata di disegno, la tavola che ci portavamo dietro faceva da vela e piccolino qual ero rischiavo di farmi portar via) poi finalmente quei meravigliosi giardinetti superati i quali, e di nuovo finalmente, via Paiolo Veronese e quel liceo Oberdan così desiderato ma anche così temuto.

NB: precedenti



sabato 14 aprile 2018

MIO PADRE... ricordi di GUERRA...2. Da Casalbuttano a Bussolengo...

Quella bottega da barbiere non in esercizio, con gli occhi di oggi, potrebbe essere considerata, come una specie di monolocale dotata com'era di tutti gli accorgimenti necessari per viverci, a cominciare da quel grande lettone più che sufficiente a  contenere  mamma Valda (e ricordo la sua eterna aggiunta, come le pastiglie) e i suoi due figlioli, Italo di appena 4 anni e il sottoscritto, Benito, che non arrivava ancora a raggiungere gli 8 e doveva aspettare il 3 dicembre di quel 1943.
A ripensarlo adesso era forse la prima volta che vivevamo tutti nello stesso ambiente perché, per tutta una serie di coincidenze, e anche quando entrambi noi figlioli eravamo a San Prospero di Imola,  vivevamo in case diverse. Già perché da quando era cominciata la guerra, e mio padre era partito per il fronte russo, noi bimbi eravamo stati spostati da Ravenna alla casa originaria di mia madre, quella casa di SAN PROSPERO, in via Lughese 35, dove all' inizio del 1900 erano arrivati sposi novelli la mia nonna Golinelli Giuseppina, detta IUSFINA, e nonno FITA, che all' anagrafe significava Giuseppe Geminiani. Una famiglia di mezzadri al servizio del CONTE MANZONI che in zona era ancora proprietario di un po' di poderi prima di vendere anche quello  e proprio ai miei  nonni dopo la fine della guerra, verso il 1926. In quelle zone vitali anche i ruoli sociali erano in movimento e la guerra, quella del 1915-18, indirettamente era stata promotrice di novità che vedremo fra un po'
All' anagrafe la famiglia s'era arricchita di altri arrivi, a cominciare dall' Arcangelo (detto CANXI) nel1902, nemmeno 2 anni dopo arriva PRIMO e poi MINGHI' (all' anagrafe Domenico), poi Ernesto e Lino (chiamati così, erano nomi insoliti) e siamo già al 1910. Finalmente arriva una femmina, che morirà con la "spagnola", e poi a fine 1912 la VALDA. Intanto qualcosa era cambiato, nonostante mio nonno e i suoi fratelli più giovani ZVANO' (Giovanni) e Pietro anziché al fronte fossero stati mandati nelle fabbriche di Genova e dintorni nelle fabbriche di armi, la gestione del podere in mano a IUSFINA e l' aggiunta di un paio di "garzoni" avevano consentito un notevole miglioramento economico. Ricordo una battuta tratta dai rari racconti di mia nonna che ricordava il suo sistema di gestione casalinga, c'erano sacchi di castagne (i MARRONI) e di noci a disposizione dei ragazzini che così a tavola non arrivavano affamati, tutti alimenti che accompagnati dal buon pane casalingo soddisfacevano l' appetito, mentre polli, anitre e altre simile cose trovavano così disponibilità per la vendita nei mercati settimanali di Imola città.
Finita la guerra continuò lo sviluppo e i bravi e attivi romagnoli accumularono il necessario per acquistare i poderi dai NOBILI PADRONI, si formò così una nuova categoria di padroni in casa propria. Fosse anche influenza del nuovo status politico? Certo molte proprietà latifondiste tipiche del passato "vaticano" sparirono e nelle province romagnole trovò largo spazio la proprietà diretta accompagnata dalla ghettizzazione dei salariati. Nell' Emilia più a Nord non fu così, rimasero le grandi aziende.
Ma torniamo al Benito e Italo, io ero affidato alla zia Carolina, giovanissima sorella di mia madre, nella casa principale detta CARANTA di Via Lughese, Italo invece era nell' altro podere a qualche chilometro di distanza e circondato da una grande ansa del fiume Santerno. Lì c'erano i due miei zii più grandi, Canxi e Primo, con mogli e figli più grandi e ben lieti di avere in aggiunta l' ultimo cucciolo dei Cremonini, anche per una abbondante apporto di altre "femmine", visto che in aggiunta a FINA (Giuseppina anche lei, moglie di Primo) e Bianchina (moglie di Canxi), c'erano Lina e Graziella nate prima dell' atteso maschio (GIGI' cioè Luigi), tutti e tre figli di Primo e Fina, mentre Bianchina  e marito c'erano riusciti al primo colpo.
Ma torniamo ai due fratellini che forse per la prima volta stavamo tutti e due nel lettone coccolati da mamma Valda senza problemi di orari e impegni se non quelli ovvi del vivere, visto che allora non occorrevano tanti accessori igienici o di attrezzature. Fu comunque un problema per poco più di una settimana, giusto il tempo che mio padre arrivasse con un cavallo e un biroccino tanto da caricare tutti con i relativi bagagli e via verso Bussolengo dove ci aspettava un quasi appartamento nel centro sulla via principale che porta alla Chiesa.
Mi viene anche in mente un fatto inconsueto, nel prato retrostante c'era un ampio prato con grandi alberi e c'era anche una quasi mia coetanea, mese più mese meno, che si arrampicava su per il tronco e sui rami. Lei era evidentemente di casa e ben allenata e i bimbi e le bimbe piccole non è che avessero particolari problemi di frequentazioni reciproche e, mentre quella amichetta si arrampicava, mi capitò di guardare in alto (allora non è che ci fossero particolari attenzioni al vestire dei bimbi) e mi accorsi che sotto a quel grembiulino e mutandine lente c'era qualcosa di diverso...
Ma torniamo al viaggio, a metà mattinata finalmente babbo BRUNO arrivò con un biroccino trainato da uno scalpitante cavallo e il caricamento fu veloce, c'erano un po' più di cento chilometri per arrivare a Bussolengo il ché significava molte  ore di viaggio. Viaggio  fantastico specie con gli occhi di uno che praticamente era sempre vissuto in pianura e fu ancora più grande la meraviglia quando cominciammo a bordeggiare il lago di Garda, per non parlare del riattraversamento del PO, senza per fortuna i batticuore del viaggio in corriera Ravenna-Bologna-Casalbuttano della partenza ormai rimasta al passato.
Poi, dopo quasi 10 ore,  finalmente, l’arrivo a Bussolengo. E mio padre fu per la prima volta oggetto di grande interesse da parte mia, in fondo io e LUI eravamo già GRANDI!


MIO PADRE... ricordi di guerra. 1. Dalla Russia a Casalbuttano.


Che buffo, stavo leggendo le solite NEWS di prima mattina  e come per caso c’era un riferimento a una città a me molto nota non fosse altro perché secondo i documenti lì sono nato in un’epoca lontana, il 1936 a dicembre il 3 del mese. La città? Ma Imola, caposaldo della Romagna, quella quasi bolognese, 70 mila abitanti, al centro di una piana ricca di una  florida agricoltura e da sempre (cioè da dopo il 1945)  sicuro insediamento di una maggioranza politica sicuramente legata al PCI e poi, inevitabilmente, al successivo PD.

E anche lì sembra che ci sia un qualche cambiamento legato alla irruenza elettorale delle cosiddette STELLE. Ma non è di questo che volevo parlare, stranamente il pensiero è andato a mio padre, Bruno. Dico stranamente perché se ripenso ai ricordi , all’ infanzia ma anche poi adolescenza e via crescendo a dominare è la Valda (come le pastiglie le piaceva sottolineare), cioè mia madre vera dominatrice e padrona della piccola tribù.
Il più antico ricordo che io ho di lui è l’ entrata nella cucina-soggiorno-pranzo-divano-dove io dormivo delle case popolari di via Fiume 16, Ravenna, anno attorno al 1942. Mio padre entra in casa, io ero in ginocchio e sotto le ginocchia dei sani chicchi di granturco (mia madre era stata buona, altre volte metteva per terra i chiodini da calzolaio!), e mia madre gli intima a provvedere ad una corretta punizione nei miei confronti. L’ allusione era netta e precisa al cinturone della divisa di ottimo cuoio nero, come nera era anche la divisa della MVSN (milizia volontaria  sicurezza nazionale). Non era la prima volta che era stato invitato a farlo, ma stavolta il tono era deciso e richiedeva la immediata esecuzione dell’ ORDINE e mio padre ci provò. Si tolse con calma la giacca, la ripose ben bene sulla spalliera di una sedia, tolse adagio la fondina della rivoltella d’ordinanza e pure il cinturone e lo alzò per picchiare secondo ordine ricevuto ma … non ci riuscì, scansò mia madre, andò nell’ altra unica stanza per cambiarsi e forse anche per sentire in modo meno urlato quel che sua moglie, e madre mia, gli diceva…
Poi i ricordi son pressoché assenti, mio padre partì per la campagna di Russia (i suoi colleghi che erano andati in Spagna erano stati tutti promossi) tornò quasi un anno dopo in una breve licenza e poi, definitivamente, dopo un po’ di mesi a campagna di Russia conclusa con la nota disfatta e aver scarpinato per centinaia e centinaia di chilometri, quasi tutti a piedi, dall’ Ucraina fino a Bologna, centro di smistamento e di raccolta. A piedi perché i tedeschi che rientravano non volevano certo mettere a bordo degli italiani, anche se in camicia nera, ed erano diretti altrove dove pensavano di bloccare la disfatta finale.
A Ravenna intanto riprendeva la vita solita, arricchita dai bombardamenti, il rifugio faceva quasi parte della “casermetta” dove mio padre era assegnato ed era un locale grande, circolare ed era parte di un complesso con funzione di obitorio sotto una torre. Ricordo le vibrazioni indotte dalla caduta delle bombe, ma ricordo anche una atmosfera tranquilla, forse per la reazione protettrice delle madri verso i figli che non DOVEVANO avere paura. Strano a ripensarci. O forse era il ricordo di qualche mese prima quando stando sull’ aia del podere di mio nonno (e  dei fratelli di mia madre) a San Prospero di Imola avevamo visto le luminarie dei bengala su Ravenna quasi in assenza di rumore o altro, data la distanza di qualche decina di chilometri, e sembravano quasi i fuochi d’artificio di certe festività religiose.
Comunque andò tutto bene, almeno a Ravenna, perché altre novità erano in arrivo stante la situazione politico-militare. I cosiddetti alleati erano ormai entrati nel territorio nazionale, si erano attestati sulla cosiddetta linea gotica ed era anche nata la RSI REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA quasi a voler immaginare il ritorno del Mussolini alle origini. Così mio padre dovette scegliere o uscire dalla MVSN o seguire il nuovo destino nella cosiddetta Repubblica di Salò e quindi lasciare Ravenna, come in effetti facemmo.
Di quel viaggio ho ricordi precisi a partire con la corriera (PULLMANN allora non usava) da Ravenna con arrivo a CASALBUTTANO (Cremona). Come famiglia eravamo solo noi 3, mia madre io e mio fratello (meno di 4 anni), mio padre era già a BUSSOLENGO (Verona) dove era di servizio, e la prima sosta era a BOLOGNA dove arrivammo per l’ ora di pranzo in un ristorante quasi alle DUE TORRI, dove adesso al piano terra c’ è la STANDA. Ho un ricordo molto preciso perché proprio mentre arrivò il cameriere con i maccheroni scattò l’ allarme aereo, poca roba, il solito PIPPO (una specie di incubo degli alleati “nemici” costituito di solito da un aereo singolo pronto a bombardare o mitragliare) ma quanto bastava per dover cercare una protezione sicura, un qualche rifugio fino al cessato allarme. E non fu senza conseguenze da quella volta, e per oltre 60 anni, non riuscii più a mangiare un piatto di maccheroni poi potemmo ripartire con la corriera per raggiungere la destinazione il ché significava dover raggiungere il PO e attraversarlo.
Naturalmente accadde anche un altro quasi atteso imprevisto perché una volta arrivati sul PO restammo imbrigliati in mezzo a una colonna militare tedesca e quello era il rischio minore se non fosse che a un certo momento a metà del ponte di barche il motore della corriera decise di fermarsi e il motorino d’ avviamento non riuscì a riavviare il motore. Ho ancora, dopo tanti decenni, il ricordo degli ordini secchi degli ufficiali tedeschi che ormai erano decisi a rovesciare la corriera nel PO e tutti gli adulti erano scesi a spingere il pullman senza risultati tanto che scattava il grido CILECCA. Poi finalmente il motore si avviò e potemmo arrivare oltre il fiume e riprendere il percorso che, inevitabilmente, fu poi di nuovo disturbato dal mitico PIPPO, con blocco e discesa dalla corriera, riparo sul fondo di un canalone per fortuna asciutto, in attesa di capirne le intenzioni e poi finalmente, era ormai buio, arrivammo a destinazione.
Era una specie di fattoria con attorno un parco e un ampio terreno agricolo e la facciata rivolta all’ ingresso aveva come dei negozi così che a noi (mamma e figlioli) toccò quello con l’ insegna di un barbiere e con dentro un grande lettone tipo matrimoniale oltre al necessario per l’ igiene più urgente. Era ora e i cuccioli di mamma Valda poterono sentirsi al sicuro tanto da approfittarono subito, dopo aver accatastato in un angolo i pochi bagagli, per infilarsi sotto le coperte e dormire fino all'alba del giorno senza altri pensieri di aerei, bombe o mitragliate.

prova 1

prova 2
fine