Giusto in quel periodo io ero ospite di un collegio a Villa San Martino di Lugo, un luogo che raccoglieva ragazzi di età varia dai 7/8 fino a oltre 20 e dove io ero arrivato da Ravenna grazie agli accordi fra mia madre e il comandante partigiano di Ravenna. Si erano conosciuti a fine aprile 1945 dopo che mio padre, unico sopravvissuto, si era consegnato al comando di Ravenna, nostra residenza, dopo i quasi 3 anni al seguito del suo DUCE in quel di BUSSOLENGO e dintorni. Mai capito da dove fossero nati questi incontri, forse avevano pesato quelle decine di ravennati in divisa da MVSN prelevati a Nord e mai arrivati a casa loro. Ma questa è storia vecchia.
Dal collegio ogni tanto (due-tre mesi) arrivava con il biroccino e la solita sfiatata cavalla mio nonno FITA, anzi ormai FITONA (Giuseppe, maggiorato per l'abbondante pancia e la non eccessiva statura) e piano piano arrivavamo a San Prospero di Imola luogo dove viveva la tribù CIARAVAL (di cognome GEMINIANI), nonno, prozio, 5 figli con relativi mogli e nipoti divisi in due poderi, partiti come mezzadri a fine '800 e ora proprietari. Erano (e ancor oggi sono, anche se spartite o vendute) 120/130 tornature di buona terra (poco più di 25 ettari) a frumento, erba spagna, vigneto e frutteto.
E così io potevo vivere una decina di giorni da "libero", lavorando, litigando e giocando con i cugini, anche quelli più grandi. Nell' intanto era morto il prozio GIANO' (Giovanni) e allora mi avevano messo a dormire nel suo stanzino con la finestra che guardava verso Nord (in "zò", verso la bassa) proprio sopra la buca del letame. Comunque un "piccolo" problema c'era, i miei cugini più grandi mi raccontavano che ogni tanto i morti tornavano nelle loro stanze e io la sera aspettavo di sentire il passo pesante di GIANO' su per la scala che dall'antistalla portava al primo piano con le cinque stanze, prive di servizi ma con le giuste dotazioni di pitali.
Poi vincevano il sonno e le emozioni della giornata.
Già, la giornata... Attorno alle 4 e mezza (non c'era ora legale, però baluginava già l'alba) si alzava MINGHI' (Domenico, classe 1907, alpino, tornato da poco dall'aver spezzato le reni alla Grecia, era sopravvissuto al ritorno attraverso la Croazia ed era stato dimesso da militare per l'età) per accudire la stalla. Era impossibile non sentirlo mentre scioglieva le varie coppie di vacche per l'abbeverata, riforniva la posta di fieno, eliminava i residui della digestione avviandoli verso la buca di raccolta, strigliava per bene ognuna di loro, aveva l'abituale diverbio con la "vacca mora". Già, i bovini sono come miopi e così l'umano appare più grande di loro e confuso poi ogni tanto qualche vacca dicono che ha come un difetto di vista e ci vede così come siamo (e MINGHI' arrivava al pelo alla statura di leva) e allora tende a cozzare, prendere cioè a cornate, e mio zio si sfogava con il manico del forcale, così si sentivano i colpi sul dorso della vacca e la litania delle "madonne", le bestemmie che non possono non condire un inizio di giornata normale.
Alle 5 e mezzo toccava a mia nonna, JUSFINA (Giuseppina), silenzioso sergente che passava in rivista il da fare (alla sera non si rigovernava, per tradizione era roba del giorno dopo, la nuora di turno settimanale aveva già dato), poi usciva a cercare la gallina giusta da mettere in tavola dopo aver prima inondato di granturco l'aia con il suo COCHI COCHI COOOCHI e il becchettare sereno delle chiocce sicure di non essere incluse fra le selezionabili, almeno finché producevano uova a sufficienza (il gallo aveva già fatto il suo dovere di maschio ed era libero).
Prima delle 6 scendevano tutti, prima l'ARZDORA (quella di turno) poi gli altri, una risciacquata al viso e fuori a preparare attrezzi e organizzare la giornata. Alle 7 e 30 in casa di nuovo per la colazione.
L'Ernesto apriva la madia, tagliava le fette belle spesse di prosciutto, il fuoco era già stato acceso, le braci pronte e le pagnotte pure ed era un cuocere il prosciutto sulle braci, prenderlo, spremerlo fra le pagnotte tagliate a mezzo e, una volta cotto, spostarsi a tavola integrando il tutto con vino (quello peggiore, il buono era venduto) opportunamente annacquato (mia nonna operava il giusto dosaggio). Niente caffè, sconosciuto, e neppure latte (per i bambini e gli ammalati) e subito fuori per i lavori di stagione assieme alle donne non di turno in casa.
Quella di turno, assieme al caporale nonna, si occupava delle pulizie e del pranzo (le altre avevano già rassettato la loro stanza e sistemato i pitali).
E così le "terribili" e afose giornate di 70 anni fa venivano affrontate con vestiti non certo estivi, MINGHI' addirittura portava i mutandoni di lana a gamba lunga anche d'estate per i residui di artrosi delle campagne di guerra. Le mie zie avevano calze e vestiti lunghi (per tenere lontana la polvere e i residui vegetali irritanti), ampi fazzoletti a coprire i capelli o i grandi cappelli di paglia. Per le donne era importante, per non assumere l'inevitabile colore del viso cotto dal sole da "contadine"...
Poi il rientro con il rintocchi del mezzogiorno, i risciacqui prima di andare a tavola, un pranzo leggero di solito brodo con pasta (la pastasciutta di rado, quasi sempre solo di domenica) e verdura con qualche piatto con fette di salume o, raramente, con quel formaggio quasi liquido fatto in casa, una specie di stracchino. E subito dopo a letto, si riprendeva alle 15 fino alle 18.
Nessuno lagnava, nessuno si lamentava, niente drammi radiofonici e televisivi. Gli uffici e le case non avevano l'aria condizionata eppure riuscivano a lavorare lo stesso, mio padre lavorava di piccone e badile sotto il sole sugli asfalti triestini. Era l'epoca di quello che chiameranno il miracolo economico.
Non è che le LAGNE sono il giusto apporto della DEMOCRAZIA?
Le lagne sono il risultato di un impoverimento. Sembra paradossale, lo so, ma quando non si hanno tanti problemi, ci si sente, e si è più poveri si semplicità e di "bellezza"
RispondiEliminasono anche l'effetto di un continuo ricorso a trovare fuori da sé i motivi del vivere. E' una educazione che soddisfa la pubblicità, se non creo ansia come faccio a proporti la soluzione? Oggi c'era una AMACA di SERRA che ritrovava il termine corretto derivato dalla FISICA: resilienza, è la capacità dei materiali di sopportare imprevisti. Quanto all'impoverimento, l'Italia degli di cui parlo era certamente meno ricca, rispetto ad oggi. La tribù Geminiani, 22 persone, aveva 3 ciclomotori 18 biciclette 1 moto gilera 125 per i due cugini più grandi, tre trattori e altri attrezzi "moderni". E questo negli anni 970. Ricordo sempre un viaggio in Campania, 1 millecento usato sull'aia e 2 striminziti cavalli a tirare l'aratro. Non è la povertà e/o ricchezza, son scelte di vita che le filosofie consumistiche correnti cercano di favorire nel modo più infame. OPINIONI, OVVIO.
EliminaInfatti non mi sono spiegata bene :) Non era povertà economica a cui facevo riferimento... ma povertà interiore.
RispondiEliminaConosco il termine resilienza, è di moda tra i politici, strano tu nn lo abbia notato finora
Si vede che i politici li frequento poco... :)
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